Chemio, trucco, donne.

Riapro le pagine del blog dopo tanto tempo, perché ultimamente intorno a me ho sentito tanto parlare di cancro e di approccio alla malattia.
Il primo spunto è dato da Kemioamiche, un programma di TV2000, in cui delle donne raccontano in una cornice surrealizzata (con tanto di playback di canzoni pop) il loro rapporto in sala chemio.
Il secondo è dato dall’iniziativa dell’Istituto IFO Regina Elena, che mette a disposizione ogni mercoledì una truccatrice per le pazienti oncologiche.
Lungi da me generalizzare o colpevolizzare chi attraverso il trucco si senta meglio (perché apparire bene è in fondo una necessità), la cosa che mi ha più colpito è, nell’intervista di Repubblica TV, sentire una donna che dice che così si sente ancora donna, ancora femmina (femminile, aggiunge poi) e, nel programma di TV2000, vedere donne malate tutte con foulard di seta colorato e sopracciglia disegnate.

Siamo di fronte alla sparizione del malato. Il malato non deve apparire malato. Il malato, se malato, è meno essere umano (meno donna, in questo caso).
Non ce l’ho con le donne che si sentono così, ce l’ho con le pressioni esterne che le fanno sentire così.
Al mio corpo mancano pezzi. Non allatterò mai, forse non riuscirò nemmeno ad avere un figlio mio. Le mie ovaie sono ferme, anche se non ho nemmeno 37 anni. Questo mi rende meno donna? Meno femmina?
Mi rifiuto di vedermi così.
La malattia non intacca solo la nostra femminilità, né è giusto che ci sentiamo minate in quell’aspetto, come se fosse la nostra unica funzione, come se smettessimo di essere utili nel momento in cui non siamo più donne, perché in fondo una donna è donna solo finché può essere desiderata o può riprodursi.
La società non vuole vedere un malato, vuole che si continui ad essere coraggiosi, forti, vincenti, come una gara. E chi muore ha perso, non parliamo di chi muore, forse è morto perché poco coraggioso?
La vita non ha classifica di merito.
Sono sopravvissuta 3 anni e mezzo alla malattia non solo perché mi sono curata, ma anche perché sono fortunata. Non perché ho lottato più forte e meglio di chi non ce l’ha fatta.
C’è un’iconografia del malato che va smontata. Soprattutto del malato donna.
Ci vogliono sempre perfette, incrollabili, tenute bene.
Ma la malattia fa schifo, è sporca, è rabbiosa, ti spaventa e certe volte non dormi perché pensi che morirai e certe volte non dormi perché il dolore fisico è troppo, ma devi rassicurare chi ti sta intorno, non si devono preoccupare per te, tu devi essere forte e coraggiosa.
E certe volte non dormi perché sei salva e pensi a chi è morto e ti chiedi ma me lo merito di essere salva?
E altre volte non dormi perché sei salva e pensi ma non durerà.

Il nostro Paese, la nostra società, hanno bisogno di integrare il malato.
Qualche tempo fa, una carissima amica che stava attraversando un lutto, mi ha detto “Nessuno deve morire da solo”. Ha ragione. Nessuno deve morire o soffrire da solo, nessuno deve essere solo perché sofferente o morente. Non siamo parte della società solo finché funzioniamo, e una società civile deve anzi valorizzare chi al suo interno ne ha più bisogno.

I deboli, il malato, il vecchio, il bambino, devono essere accolti senza condizioni. Liberi di essere deboli, vecchi, malati o bambini.
Una donna può truccarsi anche se è malata? Certo, che domande. Ma non deve truccarsi. Non deve nascondere la sua condizione. La società deve accoglierla e riconoscerla anche struccata. Anche brutta, mutilata, calva. Anche sterile, perché sterile non vuol dire disutile.

Basta a questa eterna giovinezza, al disprezzo del decadimento, a questo immaginario da Hitler-Jugend.
Basta.