Quel che resta di noi

Su Facebook, mi sono iscritta a un gruppo di donne con tumore metastatico, ma da poco. Molte sono fondatrici, o sono membri attivi da anni.

Ogni giorno, ci sono i bollettini di guerra. Ogni giorno, qualcuno entra in ospedale e non ne esce più, oppure si addormenta e muore, un necrologio costante.

Oggi pensavo a cosa rimarrebbe di me, se morissi all’improvviso. Penso a mio marito, ai miei cani, alla mia gatta.
E, mentre pensavo, uscendo dalla stanza della TV per passare in corridoio, le ho viste, sistemate ordinate vicino al mobile scuro della televisione: le mie scarpe nere.

E ho sorriso.

Francesco quasi impazzisce, perché in ogni stanza della casa lascio un paio di scarpe, ogni volta che rientro, che mi siedo, che mi stendo, mi tolgo le scarpe e le abbandono. Infradito in bagno, pantofole a forma di squalo vicino alla lavatrice, scarpe di gomma sotto al letto, stivaletti neri lanciati vicino al divano.

E allora penso a mio marito, che quando tornerà solo a casa per la prima volta senza di me, troverà tutti i miei passi ad aspettarlo. Chissà, forse prenderà ogni scarpa, calzino spaiato, ciabattina, e la infilerà in un sacco per buttarle.

Oppure, ed è questa l’immagine che mi intenerisce quando ci penso, le lascerà lì, come se aspettassero me, e le guarderà e magari gli torneranno in mente tutte le volte che si è lamentato, e sarà questo che resterà di me: tutta la strada che ho fatto, per poi tornare a casa con lui.

Bianco

Il cancro nel mio seno era bianco.

Ho sentito la dottoressa mentre mi rovistava nella carne, nel mio bel seno morbido, il seno della madre che non sarò mai, il seno che ha consolato bambini e uomini in ugual numero ma diversa maniera.
L’ago mi faceva male, il seno troppo grande per reggere l’anestesia tanto a lungo, e lei toglieva pezzi di me.
Ha detto, giallo è grasso, bianco è tumore.
Io ho sbirciato, come da piccola, tra le dita, e ho visto giallo, era giallo, era un pezzo di me.
Poi ha rovistato ancora, come a stanare una bestia tenace, e ha estratto il ferro, e in cima c’era un altro pezzo di me, ed era bianco

Bianco

Bianco.
Quando, sei anni dopo, mi hanno bucato le ossa, io mi sono tirata su, ubriaca di anestetico, un’altra persona sarebbe morta, o in coma, ma io no, io mi sono seduta e ho riso perché per la prima volta in sei mesi non sentivo dolore, e ho chiesto all’infermiera
Ma è come per il seno? Voi lo vedete se il tessuto è diverso, se sul mio osso c’è il cancro?
Lei ha esitato.
Io no.
So che non può dirmi se ho il cancro alle ossa. Voglio solo sapere se voi lo riconoscete, quando lo tirate fuori.
Lei ha abbassato lo sguardo. Ha detto sì.
E io le ho risposto
Tanto mi basta.
E le ho voluto bene, anche se la mia testa diceva solo

Bianco
Bianco
Bianco.

Oncologi fragili

Sono in attesa di PET. Mi sono ripromessa che, se sarà una bella pet da No Evidence of Disease, tornerò in piscina.

Nell’acqua, da dove viene il mio corpo, in cui guarisce il mio corpo.

L’altro giorno ne parlavo all’Oncologa Buffa. Ha la mia età, ma è seduta dall’altro lato della scrivania. Sa tutto di me. Il mio peso, la fragilità delle mie ossa, quello che può fare per farmi stare meglio. Le ho chiesto di farmi ridurre il cortisone. Sono due anni che lo prendo ininterrottamente. Voglio ridurlo e smetterlo.

Come ho fatto con il Fentanyl, come ho fatto con l’Oramorph, voglio farne a meno. Poi, se ci riesco, toccherà al Contramal. Basta droga. Basta morfina. Basta saliva in bocca un secondo prima dell’amaro della medicina.

E insomma le ho detto: è stato un anno difficile. Mio padre ha avuto il quinto cancro, io insomma, sembrava ci dovessi lasciare le penne, e invece fanculo, voglio fare un abbonamento annuale in piscina. Male che vada, Francesco se lo farà rimborsare.

Io rido, quando dico queste cose, rido perché ho di nuovo la forza di ridere, rido perché la vita è ridicola e imprevedibile, e se posso scegliere allora sceglierò sempre di ridere.

Dal mio braccio, la scritta FURIOSA dissuade quasi tutti dal fare commenti. Mi dà forza, la mia furia, la forza dell’acqua e del vento dentro di me.

Il padre dell’oncologa ha un cancro. Alla trachea, mi pare. Non credo ci sia molto da fare. Lei mi dice che ci ammira, chapeau. Che siamo forti, ma come facciamo. Le rispondo che chi sta fuori sta sempre peggio, che noi da dentro sappiamo cosa fare, c’è una strada segnata per noi. Da fuori, puoi solo guardare. Lei scuote la testa, non capisce. Così forti, dice. Pensa a suo padre che sta morendo, a me che sto morendo.

Dottoressa, le vorrei dire, stiamo morendo tutti. Noi lo sappiamo, eppure siamo noi che abbiamo compassione di te, perché tu hai solo questo contatto col mistero della nostra caducità, per ora. Per interposta persona.

Io sto morendo, dottoressa. Tuo padre sta morendo. Ma sei tu che hai paura.

Non le dico nulla di questo, le dico la prima menzogna, quella che ti dicono ogni volta quando non sanno cosa dire, sarò cattiva a farlo, o ipocrita? Eppure io ci credo. Più per suo padre che per lei.

Le dico

Non preoccuparti per tuo padre. Andrà tutto bene.

E io ci credo.

39

Quattro giorni fa ho compiuto 39 anni. L’anno scorso non pensavo che ce l’avrei fatta.
Adesso è come un conto alla rovescia per i 40, ce la farò a compierne 40?

Il 19 sono andata a rinnovare la patente. Quando la dottoressa mi ha chiesto se avessi malattie, ci ho pensato un secondo, come un attimo di vuoto, e poi ho esclamato: Sì! Il cancro!
Lei c’è rimasta male.
Io le ho spiegato: un tumore metastatico alle ossa, partito dalla mammella. Insomma, sto morendo pian pianino. Come tutti, forse un po’ più veloce.
Lei c’è rimasta malissimo.

Quando mi ha parlato del prossimo rinnovo della patente, tra dieci anni, ho riso.
Io non credo che ci sarò, tra dieci anni, e non vedo perché mentire, perché rassicurare gli altri.

Mi hanno fatta per morire giovane, un fuoco d’artificio che ti brucia la retina e il secondo dopo non c’è più.

Non lo posso dire, ci rimangono male, mio fratello non riesce a guardarmi negli occhi, dice che mi spargerà in mare, gli dico sei pazzo? io voglio tornare alla terra, voglio stare sotto un albero, l’ombra e il vento. Voglio un funerale laico. Voglio che Sarah entri vestita vistosissima, bellissima, con la veletta e i tacchi alti. Voglio che Francesco non pianga, ma che non si risposi mai. E che ringrazi che non lo ammazzo, per sicurezza.
Voglio una lapide bianca, questo pensavo il giorno del mio compleanno, quando guardando la candelina non sapevo cosa desiderare, perché i desideri sono infami, e allora, no voglio stare bene, troppo vago; no voglio guarire, troppo idealista; no voglio essere felice, perché a modo mio io sono felice, adesso; no voglio stare sempre con Franci, perché metti che poi ci prende in pieno un tir.

E allora ho scelto il desiderio: voglio una lapide bianca, con su scritto:

è stata una bella festa.

Quando il gioco si fa duro…

…i duri iniziano ad assumere escitalopram.

Non credevo che mi sarebbe mai successo, ma a quanto pare piangere in continuazione, dormire troppo o non dormire, smettere di mangiare, non avere voglia di lavarsi o uscire fanno parte di un quadro più ampio.

Vedi a volte, le sorprese.

Fanno presto a dire che se la prendi positivamente poi le cure funzionano meglio. Sono depressa, depressa perdio, non mi fido neanche più dei miei medici che mi avevano definita guarita e non è vero. Non sono guarita, non sarò mai più guarita, e adesso ho anche un disturbo depressivo.

Ah, ma prendiamola bene, mi raccomando!

Di tutto quello

che mi potevano togliere, mi hanno tolto il mare.

Avevo organizzato le vacanze con furia, volevo passare giornate intere a mollo nell’acqua salata. Qualcuno dice che tutto si cura con l’acqua salata, che sia sudore, lacrime o mare.

Poi Philip Seymour Hoffman Medico del Dolore mi ha spento il sorriso dicendo che non posso espormi troppo al sole. Per me microbagnetti da 5 minuti negli orari più implausibili, alle 7 di mattina o alle 7 di sera.

Sono entrata in acqua e ho pregato: curami, curami, curami. L’altra volta aveva funzionato. Questa volta non so.

Di tutto quello che non perdono alla malattia, la cosa peggiore è avermi tolto il mare.

Chemio, trucco, donne.

Riapro le pagine del blog dopo tanto tempo, perché ultimamente intorno a me ho sentito tanto parlare di cancro e di approccio alla malattia.
Il primo spunto è dato da Kemioamiche, un programma di TV2000, in cui delle donne raccontano in una cornice surrealizzata (con tanto di playback di canzoni pop) il loro rapporto in sala chemio.
Il secondo è dato dall’iniziativa dell’Istituto IFO Regina Elena, che mette a disposizione ogni mercoledì una truccatrice per le pazienti oncologiche.
Lungi da me generalizzare o colpevolizzare chi attraverso il trucco si senta meglio (perché apparire bene è in fondo una necessità), la cosa che mi ha più colpito è, nell’intervista di Repubblica TV, sentire una donna che dice che così si sente ancora donna, ancora femmina (femminile, aggiunge poi) e, nel programma di TV2000, vedere donne malate tutte con foulard di seta colorato e sopracciglia disegnate.

Siamo di fronte alla sparizione del malato. Il malato non deve apparire malato. Il malato, se malato, è meno essere umano (meno donna, in questo caso).
Non ce l’ho con le donne che si sentono così, ce l’ho con le pressioni esterne che le fanno sentire così.
Al mio corpo mancano pezzi. Non allatterò mai, forse non riuscirò nemmeno ad avere un figlio mio. Le mie ovaie sono ferme, anche se non ho nemmeno 37 anni. Questo mi rende meno donna? Meno femmina?
Mi rifiuto di vedermi così.
La malattia non intacca solo la nostra femminilità, né è giusto che ci sentiamo minate in quell’aspetto, come se fosse la nostra unica funzione, come se smettessimo di essere utili nel momento in cui non siamo più donne, perché in fondo una donna è donna solo finché può essere desiderata o può riprodursi.
La società non vuole vedere un malato, vuole che si continui ad essere coraggiosi, forti, vincenti, come una gara. E chi muore ha perso, non parliamo di chi muore, forse è morto perché poco coraggioso?
La vita non ha classifica di merito.
Sono sopravvissuta 3 anni e mezzo alla malattia non solo perché mi sono curata, ma anche perché sono fortunata. Non perché ho lottato più forte e meglio di chi non ce l’ha fatta.
C’è un’iconografia del malato che va smontata. Soprattutto del malato donna.
Ci vogliono sempre perfette, incrollabili, tenute bene.
Ma la malattia fa schifo, è sporca, è rabbiosa, ti spaventa e certe volte non dormi perché pensi che morirai e certe volte non dormi perché il dolore fisico è troppo, ma devi rassicurare chi ti sta intorno, non si devono preoccupare per te, tu devi essere forte e coraggiosa.
E certe volte non dormi perché sei salva e pensi a chi è morto e ti chiedi ma me lo merito di essere salva?
E altre volte non dormi perché sei salva e pensi ma non durerà.

Il nostro Paese, la nostra società, hanno bisogno di integrare il malato.
Qualche tempo fa, una carissima amica che stava attraversando un lutto, mi ha detto “Nessuno deve morire da solo”. Ha ragione. Nessuno deve morire o soffrire da solo, nessuno deve essere solo perché sofferente o morente. Non siamo parte della società solo finché funzioniamo, e una società civile deve anzi valorizzare chi al suo interno ne ha più bisogno.

I deboli, il malato, il vecchio, il bambino, devono essere accolti senza condizioni. Liberi di essere deboli, vecchi, malati o bambini.
Una donna può truccarsi anche se è malata? Certo, che domande. Ma non deve truccarsi. Non deve nascondere la sua condizione. La società deve accoglierla e riconoscerla anche struccata. Anche brutta, mutilata, calva. Anche sterile, perché sterile non vuol dire disutile.

Basta a questa eterna giovinezza, al disprezzo del decadimento, a questo immaginario da Hitler-Jugend.
Basta.

I miei occhi

Facebook ha delle funzionalità davvero utili. Nello specifico, “Accadde oggi” ci permette di rivedere post passati. Anche quando non vorremmo.
Il 20 luglio 2013 avevo avuto da poco la mia diagnosi. Ondeggiavo ancora tra l’incredulità e la disperazione. Quel giorno si sposava un amico di mio marito, e noi siamo andati a festeggiare come se non ci fosse un domani (ah ah).
Nella maggior parte delle foto sorrido, ma i miei occhi raccontano un’altra verità.

occhi

La verità che non ci dicono del cancro non è nei capelli tagliati, né nella nausea.
Non è nelle statistiche, nel dolore, nei globuli bianchi.
E’ nella paura, che tutto nasconde e tutto attutisce.

Rimane, in fondo, sempre un po’. E mi guarda con i miei occhi.

Dai, c’eri quasi [POST COMMEMORATIVO]

Esattamente due anni fa, circa a quest’ora, mi sottoponevo alla mia prima ecografia. Solo due giorni prima avevo sentito il “bozzo” sotto la pelle nel mio seno sinistro.

Il radiologo che mi fece l’ecografia si lamentò del mio seno troppo grande (tanto da scriverlo nel referto), e fu in grado solo di consigliare una mammografia.
La massa che ha visto con la macchina era di 7 millimetri.
La verità è che il mio cancro era già di 6 centimetri, e si sentiva serenamente anche senza ecografia, e che tutto il pacchetto linfonodale era da buttare, altro che RARI LINFONODI.

Caro dottore, non so dove sia ora.
La ricordo con astio, come un uomo rigido e lamentoso davanti a una donna spaventata, ma soprattutto come uno che non c’aveva capito un cazzo.
Io, dopo due anni, sono ancora qui, e non grazie alla sua stupida faccia di merda.

Dai, c'eri quasi.

                      Dai, c’eri quasi.

Batticuori

Quando nell’email ti trovi un messaggio del Sant’Orsola che ha come intestazione “MANTENIMENTO TESSUTO OVARICO” il cuore perde un colpo.

Per fortuna è solo la segnalazione di cambio di intestazione della raccomandata, ma ecco, insomma, diciamo che quello rimane un tasto delicatissimo.

Sono passati tre mesi dall’ultima revisione chirurgica. Qui pare abbia retto tutto. Ci sono segni, cose che tirano, forme nuove, ma tutte al loro posto. Ho anche ricominciato a nuotare, ed è buffo perché si muove tutto in un modo mai provato prima. Mi faccio la doccia solo quando sono sicura che non ci sia nessun altro.

Prendo le mie medicine, mangio bene. Cerco di non pensare a nulla di ansiogeno.

Poi, rovistando in internet, trovi le storie di donne che si sono ammalate di nuovo. Che hanno il cancro alle ovaie. Che hanno il fegato, le ossa malati. E ti ripeti che non sei tu, che non sarai tu, che pensare alla possibilità del male è una condanna cui ti dovresti essere sottratta con la mastectomia.

Razionalizzi, lavori, pensi ad altro, ti godi la vita, e le vite nuove, e le vite che stanno arrivando, e poi, la notte, succede.

Il cuore perde un colpo.