Nell’800 si definiva “mal sottile” la tubercolosi, perché sembrava consumare da dentro le persone. L’immagine tipica dell’eroina (o dell’eroe) tragica ottocentesca o dei primi del novecento è appunto una figura pallida e consunta (da qui anche consunzione), tutta sospiri, languori e sbocchi di sangue.
Anche Joyce, ne I Morti, rievoca la figura dell’innamorato giovane e infelice che va sotto la pioggia dall’amata e poi CREPA.
Per non parlare di John Keats, peraltro sepolto a Roma, che è epitome del poeta romantico: pensa bene di stirare le zampe lontano dalla sua Fanny ad appena 25 anni.
FUN FACT: La tomba di Keats, nel cimitero acattolico di Roma, non porta il suo nome. C’è scritto:
Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”
Non diciamolo a nessuno, John.
Quanta sobrietà, quanto riserbo! Solo che il GENIO che s’è fatto seppellire lì accanto, Joseph Severn, l’ha sputtanato: sulla lapide ha fatto praticamente scrivere EHI SONO SEPOLTO ACCANTO A KEATS! Non ci credete?
Farsi grossi pure da morti.
FINE DEL FUN FACT.
Tutto questo per dire che, per un paio di secoli, la TBC è andata molto di moda. Si moriva lentamente, dando tempo a chi ci stava accanto di dichiararci amore eterno, si dimagriva pian pianino che non fa mai male, cose così, condite di manine gelide e sospiri ardenti di febbre.
Il cancro è la TBC dei nostri tempi.
Fateci caso. In praticamente ogni film drammatico c’è un malato di cancro. Così su due piedi mi vengono in mente vagonate di titoli in cui il malato è protagonista (50/50, FANBOYS, La Custode di mia sorella, Per una sola estate, I passi dell’amore…), e solo di recente hanno mostrato anche malati maschi, perché prima erano solo le donne a morire, a consumarsi, dopo aver impartito una lezione di vita al buzzurro capitato lì accanto negli ultimi, radiosissimi due mesi di vita della fanciulla (Come prego? Avete detto anche voi EROINA OTTOCENTESCA?).
Altrimenti, il malato funge da utile comprimario per giustificare dolori, sensibilità, drammi altrimenti inesistenti (di solito è una mamma che muore e il figlio piange e la fidanzatina lo ama perché lo vede così sensibile).
Ha sempre un foulard colorato in testa ed è sempre TANTO FORTE. O è a letto, che aspetta di morire. Col foulard.
Siamo diventati un luogo comune, un tòpos letterario (come diceva Checov: Se nella prima scena del dramma c’è un fucile appeso alla parete, questo dovrà sparare nell’ultimo atto). Il malato di cancro è come il fucile di Checov: se appare, deve morire.
Una sgradevole eccezione si è vista nel libro/film The Help, una cosa che forse puntava a essere un nuovo Colore Viola e invece s’è fermato molto prima. In sostanza, la mamma della protagonista ribelle è malata di cancro. Le mancano ciocche di capelli, è a letto, c’è tutto il repertorio.
Verso la fine del libro/film, SENZA ALCUN MOTIVO, dichiara
HO DECISO DI NON MORIRE.
E non muore. Così. Senza un briciolo di spessore. Vive perché la sua morte non avrebbe avuto alcun tipo di impatto.
Dobbiamo rassegnarci: siamo entrati nell’immaginario collettivo come nuovi eroi romantici, morbidamente abbandonati su grandi cuscini a consumarci lentamente.
Il trucco è RIFIUTARCI. Rifiutare questa nobilitazione da martiri, questa idealizzazione che annulla ogni nostro difetto, e ci fa sante perché malate.
VAFFANCULO. Io sono malata e sono sempre la stessa stronza.
A letto a sospirare stateci voi, io ho da fare. E soprattutto non sono Keats.