Crioconservazione del tessuto ovarico (perché non si sa mai)

Dalla diagnosi in poi, non ho pianto.
I medici mi parlavano di terapie durissime, nausee, perdita di capelli, interventi, e io niente.
Serena e ferma.

Un giorno, però, l’oncologa mi ha detto che avrei potuto diventare sterile. Nonostante l’enantone, che mi frulla in una tragica menopausa simulata, avrei comunque potuto uscire da questa bella avventura con il… forno rotto.
A quel punto, quando ho visto l’immensità della strada che mi si parava davanti, 8 cicli di chemio, l’intervento, 5 anni di terapia ormonale e in più il rischio di infertilità, ho educatamente detto
Mi scusi
ho sollevato davanti al viso la cartellina blu che uso per i referti e ho pianto.

Per una che ha un cancro come il mio, che reagisce agli ormoni, è impossibile fare il prelievo di ovociti. Perché prima dovrebbero bombardarmi di – esatto – ormoni.
L’oncologa allora mi ha proposto un’alternativa fantastica:
la CRIOCONSERVAZIONE DEL TESSUTO OVARICO.

E’ un procedimento offerto dal SSN, si fa al policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna, e pare stia dando ottimi risultati.
In due giorni, si mette letteralmente in banca la propria futura fertilità, con un intervento brevissimo in laparoscopia e in anestesia generale.

Finché non ho ricevuto la telefonata da Bologna per il colloquio sono stata ai limiti dell’isteria.

Mi colpevolizzavo per non averci pensato prima, per non aver fatto un figlio senza stare troppo a valutare situazione economica, prospettive lavorative e altre sciocchezzuole pratiche.
Adesso, quando ormai sono passati 23 giorni dall’intervento, sono già più serena.

Magari il mio tessuto non mi servirà mai, starà lì per 5 anni sotto azoto liquido e poi lo donerò alla scienza (detto così fa fico, ma non credo lo useranno per clonarmi, purtroppo), perché alla fine la Natura mi farà vedere che non scherzava, donandomi due fianconi da fattrice, e che la mia fertilità è sopravvissuta alla malattia con l’ostinazione di chi sa di avere una missione.
O magari mi servirà. Fatto sta che un piccolo gesto, come mettere un frammento di me in freezer, ha sedato una buona parte delle mie ansie, neanche fosse una questione di scaramanzia.

La brutta ironia di una malattia già stronza di suo come il cancro al seno, è che passo dopo passo ti cambia il corpo, e devi stargli dietro, e non farti schiacciare.

Devi capire che tu come persona non sei solo nel tuo seno, o nei tuoi capelli, o nella forma dei tuoi genitali (ah-ah! Non ve l’aspettavate, eh? E invece, la menopausa regala sempre nuove sorprese, a quanto pare); che il tuo futuro non è solo nella tua capacità di riprodurti.
Eppure non è facile, ed è difficile far capire anche ai nostri cari che i capelli non sono solo capelli, e un figlio non è solo un figlio.
Non c’è una formula magica. Per me è ancora un work in progress: ogni mattina mi sveglio e cerco di ridefinirmi in modo nuovo.
Per ora funziona. Anche grazie a un freezer.

“Ho il cancro, ma niente di che”

Una volta appurato che si è malati, bisogna decidere come, quando e a chi dirlo.
Si sviluppa una sorta di pudore della malattia, cioè, non è che uno mi chiede come sto e io posso spiattellargli una bomba del genere così, senza preavviso.
Quindi di solito ci giro intorno, e tendo a minimizzare.
Da quando ho avuto la diagnosi, e sono ormai tre mesi, ho consolato un sacco di gente che si sentiva dispiaciutissima per me. Mi sono affrettata a precisare che mi stanno curando, che sono fortunata, il mio cancro risponde agli ormoni, che è tutto sotto controllo.

Per tre mesi non ho praticamente dormito la notte. Tutta concentrata a controllarmi, a rimanere calma e positiva, e sorridente e attiva, e poi la notte BAM!, sveglia. Per un po’ ha funzionato la melatonina.
Poi, mi hanno suggerito anche gli psicofarmaci, ma non ho voluto.
Non per una questione di nobiltà da martire, è che tendo a sviluppare dipendenze, e non mi sembrava il momento adatto di iniziarne un’altra.

Poi, come previsto, hanno iniziato a cadermi i capelli. Li sentivo sotto le dita come ragnatele, privi di vita.
Pochi, all’inizio.
Hanno iniziato a venir via seriamente mentre ero a Bologna a fare la crioconservazione del tessuto ovarico (una roba fantastica di cui parlerò più avanti). Mi sono alzata dal letto, ancora dolorante, e il mio cuscino pareva il cugino It.

Uguale, ma senza bombetta e occhiali.

Uguale, ma senza bombetta e occhiali.

Non l’ho presa proprio bene.
Di tutte le cose che mi aspettavano o che avevo già fatto, tipo la chemio (buffo, se dico o scrivo “chemio” mi viene automaticamente la nausea, tipo cane di Pavlov), il vero dramma sono stati i capelli.

So anche perché.
Finché avessi avuto i miei bei riccioli scuri, la malattia non si sarebbe VISTA. Avrei potuto continuare a dire
Sì, ho un po’ il cancro
come se stessi parlando di un raffreddore.
Adesso no, si vede, esco con un cappellino di stoffa e la gente mi guarda (o forse sembra a me che mi guardino e in realtà non mi fila nessuno). In compenso sono tutti molto gentili, ma sono sempre stata una misantropa, e la gentilezza non aiuta.
Mi vien voglia di prendere a schiaffi gente a caso.

Ad ogni modo, quando mi guardano, e io vedo in fondo ai loro occhi un briciolo di pietà, di compassione, di paura o anche di sollievo (se tocca a me non tocca a te), di solito sorrido.
All’inizio era difficile, ora mi viene meglio.
Sorrido, come a dire
Sì, ma non è niente di che.

Inizia tutto così

Sei in bagno, ti guardi distrattamente allo specchio. E’ un po’ che il tuo corpo non ti convince. Hai scoperto un’asimmetria, o è solo una sensazione.

O forse ti stai raccontando un sacco di cazzate, ed è solo un caso, ti tocchi il seno e senti qualcosa.
Non hai mai saputo cosa volesse davvero dire “paura” finché non hai sentito quel coso. E’ lì, solido, impertinente. E’ come se in parte lo avessi aspettato tutta la vita (con la storia familiare che hai, e poi hai sempre fumato, col fatalismo sciocco di chi fuma sapendo che fa male), senza renderti conto di farlo.

E ora è lì.
Dai primi esami appare solo un’ombra. Il primo radiologo si lamenta del tuo seno troppo grosso, l’ecografia è inutile, la mammografia un po’ di meno.
C’è una forma a stella, dentro.
Se il Dottor Web ci ha insegnato qualcosa, è che “forma irregolare uguale cosa brutta”, ma che t’importa, tu ti aggrappi alla speranza contro ogni logica, e odii per l’ennesima volta questo corpo maledetto che hai sempre detestato e che ti tira l’ennesimo scherzo.

Il senologo guarda ecografia e mammografia, ti tocca, dio, quanto ti dà fastidio essere toccata!, ti tocca e dice che devi fare un’altra ecografia e una biopsia.
Gli chiedi
Quanto devo preoccuparmi?
Lui non ti guarda in faccia, mentre ti risponde
Nel 95% dei casi, alla sua età sono formazioni benigne.

Pochi giorni dopo sei a fare un’altra ecografia, pronta per una biopsia. Non te la faranno, la biopsia, per non sai quale motivo legato all’anestesia che poi falserebbe altri esami diagnostici, per lo meno non subito. La farai dopo.
Non stai tanto ascoltando. Perché stavolta si vede, non è solo un’ombra.
E quest’altro radiologo, dopo aver scherzato sul primo radiologo che non aveva apprezzato il tuo seno troppo grosso (“sono punti di vista”), questo radiologo che sta per diventare padre da un giorno all’altro, ti chiede
Lei, esattamente, cos’ha capito di quel che le hanno detto finora?
E tu rispondi
Ho capito che questa non è una buona domanda.
E sorridi, perché lo sapevi, lo sentivi, e non si può più far finta di niente. L’infermiera ti accarezza la mano.
Ancora non sai nulla dell’ospite che ha messo letteralmente radici nel tuo seno, non sai com’è fatto, non sai a che terapia risponde.
Sai solo che hai sconfitto la statistica.
Fai parte del 5%.

E’ maligno.